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"Fare cose con le parole"

Quando l'ambiguità delle leggi è deliberata

di Giovanni Acerboni, 9 giugno 2009

 

Alla fine degli anni Novanta, quando ho cominciato a occuparmi di scrittura professionale, erano molto diffuse due idee. La prima, che le leggi potessero anzi dovessero essere scritte in modo chiaro, cioè massimamente esplicito. La seconda, che la chiarezza di una legge avrebbe impedito interpretazioni arbitrarie. Per molto tempo ho pensato che fossero idee giuste. Del resto, l'articolo 12 delle Preleggi, dice chiaramente che:

nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

Che molte leggi non siano chiare, lo dicono tutti, soprattutto coloro che le devono applicare e che le riformulano per spiegarle agli altri. A turno, e a volte tutti insieme, non sono chiari il linguaggio, la connessione tra i concetti e l'intenzione del legislatore.

Non voglio, in questo articolo, discutere se e come si possa rendere le leggi chiare. Infatti, siccome ora penso che rendere chiara una legge sia possibile solo se il legislatore vuole essere chiaro, vorrei affrontare il caso molto frequente di una legge poco chiara a causa del fatto che il legislatore non vuole essere chiaro. Le sue ragioni possono essere le più diverse, ma tutte mi paiono riconducibili al fatto che le leggi sono uno strumento della politica, la quale non è l'arte della chiarezza bensì l'arte del possibile.

Bene. E allora, quando una legge non è chiara, cioè quando è interpretabile secondo le opinioni di chi legge, la legge dice che è obbligatorio avere opinioni. Naturalmente, non tutte le opinioni sono lecite, tanto è vero che molte sentenze condannano chi ha interpretato male la legge. Uno dei casi più paradossali è quando una sentenza punisce qualcuno che ha seguito l'interpretazione dei testi della cosiddetta prassi amministrativa, i quali testi forniscono un'interpretazione talvolta ufficiale ma non sostituiscono né modificano la legge, sicché un giudice può benissimo condannare un cittadino che ha deciso di comportarsi come - poniamo - una circolare dell'Agenzia delle Entrate gli ha fatto credere di doversi comportare (per esempio, un medico libero professionista senza studio deve pagare l'IRAP? Parrebbe di no. Vedremo).

Dunque è obbligatorio avere opinioni senza la certezza che ogni singola opinione sia lecita. Ma, in attesa di giudizio, è obbligatorio avere opinioni. Non aveva torto chi aveva tradotto molto maccheronicamente "Tutto capita in una sentenza" il detto latino "Quot capita, tot sententiae" (Tante teste, tante opinioni). L'opinabilità di una legge genera l'obbligatorietà delle opinioni, che è una vera manna che giustifica quasi tutto quello che viene scritto e detto in Italia.

Facciamo un esempio, preso a caso, per carità. Il 21 aprile 2009 il Consiglio Regionale della Lombardia approva la legge regionale n. 8 Disciplina della vendita da parte delle imprese artigiane di prodotti alimentari di propria produzione per il consumo immediato nei locali della azienda. Non passano ventiquattro ore che già si discute sul senso della legge, e infatti il 22 aprile compaiono sul sito della Regione le seguenti Precisazioni dei presidenti Saffioti e Belotti:

In merito all'approvazione della legge "Disciplina della vendita da parte delle imprese artigiane di prodotti alimentari di propria produzione per il consumo immediato nei locali della azienda" sono doverose alcune precisazioni a fronte di erronee interpretazioni apparse su alcuni quotidiani.

Smentiamo nel modo più netto - affermano Carlo Saffioti Presidente della IV Commissione Consiliare "Attività Produttive", presentatore di uno dei due progetti di legge e relatore della legge, e Daniele Belotti, presentatore dell'altro progetto di legge abbinato nell'ambito della trattazione - che d'ora in poi sarà vietato, ad esempio, il consumo di un gelato sul marciapiede esterno alla gelateria o di una pizza al trancio fuori da una pizzeria d'asporto. Come prevede l'articolo 2, comma 2 della legge, è vietato non il consumo del prodotto acquistato nella kebaberia, piadineria, gelateria o altro laboratorio artigianale, all'esterno del locale, ma l'installazione di arredi atti a permetterne il consumo. Per essere più chiari: se un cliente mangia il gelato in piedi o seduto su una panchina pubblica all'esterno della gelateria può tranquillamente continuare a farlo; se mangia il gelato al tavolino o al bancone, sotto un gazebo o all'interno di dehors installati dal titolare della gelateria, allora è vietato. Ma non è una novità: già oggi, in base alla legge Bersani, i laboratori artigianali non possono prevedere l'allestimento di arredi esterni per la consumazione dei propri prodotti.

L'interpretazione, volutamente strumentale, data dai alcuni Consiglieri di opposizione - precisano Saffioti e Belotti - ha evidentemente tratto in inganno alcuni organi di informazione. Del resto nessuna delle associazioni di categoria intervenute nelle audizioni in IV Commissione in merito a questa legge ha mai sollevato alcun dubbio sul divieto di consumo all'esterno, dando per assodata l'interpretazione che si rifà al solo divieto di installare arredi esterni.

Per sgomberare ulteriori dubbi, facciamo notare che tra le sanzioni previste all'articolo 4 non è, ovviamente, previsto alcuna ammenda per coloro che si mangiano un gelato sul marciapiede. Un'ultima precisazione: le sanzioni amministrative pecuniarie vanno da 150 euro a 1.000 euro e non 3.000 come erroneamente riportato da alcuni quotidiani.

Prendiamo a caso un passo della legge (art. 3, comma 1):

Gli orari di apertura e chiusura al pubblico delle imprese artigiane di produzione e trasformazione alimentare che effettuano la vendita dei propri prodotti per il consumo immediato nei locali dell'azienda sono rimessi alla libera determinazione degli imprenditori, nel rispetto della fascia oraria compresa dalle ore sei all'una del giorno successivo, salvo deroghe motivate da parte dei comuni, sentite le associazioni di categoria, al fine di soddisfare adeguatamente la domanda e di garantire, nel contempo, la qualità e la vivibilità delle aree urbane in relazione alle caratteristiche urbanistiche del territorio, alla tipologia artigiana e al periodo dell'anno.

Riconoscere le strutture linguistiche che ostacolano la chiarezza e la leggibilità non è difficile: abbondano passivi e relative nominalizzazioni, e subordinate implicite. Migliorarle è più difficile. Per esempio, dire 'imprese artigiane che producono e trasformano gli alimenti' è lo stesso che dire 'imprese artigiane di produzione e trasformazione alimentare'? Per saperlo, occorre conoscere la materia. Tuttavia, mi prendo il rischio e riformulo (anche perché non è lì che risiede l'ambiguità, come vedremo):

Gli imprenditori possono determinare liberamente gli orari di apertura e di chiusura delle (loro?) imprese artigiane che producono e che trasformano gli alimenti, e che vendono i propri prodotti agli avventori (è proprio necessario dire 'per il consumo immediato'?) nei locali dell'azienda. Gli orari devono però rientrare nella fascia oraria tra le sei del mattino e l'una di notte. Tuttavia, dopo aver sentito le associazioni di categoria, i comuni possono concedere delle deroghe motivate, affinché la domanda sia adeguatamente soddisfatta, e nello stesso tempo la qualità e la vivibilità delle aree urbane sia garantita in relazione alle caratteristiche urbanistiche del territorio, alla tipologia artigiana e al periodo dell'anno".

Se la qualità del materiale linguistico è certamente migliorata (mi scuso se appaio superbo) e con essa la leggibilità (aspetto peraltro molto sopravvalutato), non è migliorata affatto la chiarezza. A che cosa servano le deroghe comunali non si capisce. Quale domanda di chi (dei consumatori?) deve essere adeguatamente soddisfatta da chi (dalle imprese?)? Cosa significa 'caratteristiche urbanistiche del territorio'? Quali sono i periodi dell'anno che determinano la necessità di quali deroghe?

È la necessità di valere per tutte le... succitate imprese artigiane, per tutte le caratteristiche urbanistiche di tutti i 1546 comuni lombardi a rendere generico il testo di legge? Prendiamo pure per buona l'intenzione, però è fin troppo evidente che chiunque può dimostrare la necessità di qualsiasi deroga come anche la sua inutilità.

Tiriamo le somme. Se in alcuni punti l'estensore della legge poteva scrivere un po' meglio, in altri proprio non poteva. Cioè, avrebbe potuto, ma avrebbe anche dovuto dire più cose, esplicitando molto di più. Di conseguenza, ha fatto benissimo a scrivere male anche dove poteva scrivere bene, perché qualunque lettore avrebbe colto l'improvviso passaggio da una prosa piana e chiara a una prosa contorta dal significato oscuro e dunque avrebbe potuto identificare facilmente il punto in cui la legge diviene deliberatamente ambigua.

In questione non vi è tanto la competenza linguistica, ma la politica. E in questo caso, mi pare, la questione politica è di equilibrare il diritto al passeggio dei cittadini in una strada pulita dove possono comprare un panino o un gelato anche a tarda ora, con il diritto alla sopravvivenza delle imprese artigiane, con il diritto al riposo di chi vive sopra quei locali. Bene. Fatta la legge, cominceranno immancabilmente le dispute. Si scriveranno petizioni, interpelli, pareri, articoli e lettere al direttore; entreranno in campo lobbisti e avvocati; si creeranno comitati di cittadini e di esercenti. L'argomentazione migliore vincerà, magari sospinta da ragioni meno astrattamente retoriche.

Come dice Wisława Szymborska, "penso che vi siano delle conclusioni da trarre, ma non so quali".


[pubblicato per la prima volta il 9 giugno 2009 nel blog Scrittura professionale, di Giovanni Acerboni. Il blog, edito da Edizioni Master, è rimasto attivo dal 17 gennaio 2008 all'11 ottobre 2009].