Chi paga chi scrive circolari interne?
di Giovanni Acerboni, 6 maggio 2009
Che chi scrive sia pagato da chi lo legge, è vero ma non sempre e solo da quando esiste il sistema industriale e un pubblico vasto, cioè grosso modo dalla metà del Settecento. Dante faceva l'ambasciatore mentre Goldoni viveva delle proprie commedie e il suo rivale Gozzi anche della sua attività giornalistica. È il lettore di letteratura, giornali, saggistica, insomma dei testi d'autore, che decide di acquistarli e di dedicarvi del tempo. Le sue motivazioni possono essere diverse, ma tutte riconducibili ad attività facoltative: chi non legge quei testi non è soggetto ad alcuna sanzione, non corre alcun rischio. Spende liberamente il suo denaro e il suo tempo (per amor di precisione, andrà notato che l'editoria a stampa - libri e giornali - gode anche di contributi pubblici, il che ci permette di dire che i suoi costi sono sopportati anche da chi non legge. Ma lasciamo andare).
Se, dunque, in buona sostanza (stavo per dire 'in soldoni'), chi scrive testi d'autore sopravvive se vende abbastanza, chi paga chi scrive un testo professionale? Occorre fare molte distinzioni, perché 'testo professionale' non è che dica tutto, anzi. Limitiamoci, almeno per il momento, ai testi che hanno una rilevanza organizzativa (come le circolari interne di una pubblica amministrazione o di una banca).
Chi scrive circolari interne non è pagato da chi legge (ci mancherebbe altro - direbbe quel lettore) ma dall'organizzazione per la quale scrive. Però, il costo, cioè il valore di quelle informazioni non è solo dato dallo stipendio, anzi. A differenza dei testi d'autore, che si possono tranquillamente ignorare o leggere in vacanza, le circolari interne devono essere lette, e lette durante la giornata lavorativa, e dunque costano all'organizzazione anche il cosiddetto tempo/uomo di chi le legge.
C'è dunque un corto circuito editoriale: chi investe per la produzione di informazioni investe anche per la loro fruizione (sarebbe un po' come se un giornale pagasse anche il lettore). Poiché nessuno è pazzo, è evidente che questo costo rientra, o dovrebbe rientrare, in termini di miglior funzionamento della macchina, di migliori relazioni tra le persone e così via. Se consideriamo che nella pubblica amministrazione ci sono tre milioni di dipendenti, e ipotizziamo che passino un minuto a leggere circolari, il costo sociale dell'investimento per l'ottimale funzionamento di questa macchina sarebbe di circa tre milioni di euro al giorno, attribuendo alla buona un euro al minuto per il costo del lavoro pubblico. Se i minuti fossero due, i calcoli li lascio al lettore, e glieli lascio anche nel caso in cui i minuti fossero tre o cinquanta. Ho fatto l'esempio della pubblica amministrazione, ma lo stesso vale per una grande azienda (dove forse i costi al minuto sono superiori).
Il costo dell'informazione è dunque una delle voci del costo del buon funzionamento organizzativo. È evidente, dunque, che una buona informazione produce un effetto che compensa il suo costo. Le organizzazioni hanno abbattuto questo costo, per esempio, ricorrendo ai canali digitali, che fanno risparmiare carta e francobolli, e che sono più veloci. Ma il tempo/uomo dipende in minima misura dal fatto che uno legga un foglio stampato o a video. Il tempo/uomo è un costo legato alle capacità umane di decodificare e interpretare i testi. Oltre un certo limite, non si può scendere.
I fattori critici per la riduzione di questo tempo non sono poi molti. Il primo fattore è la quantità di testi da leggere, il secondo è la qualità di ognuno di questi testi. Più sono i testi e peggiore è la loro qualità, più aumenta il tempo di gestione e di lettura, più costa il buon funzionamento dell'organizzazione. Ma il rischio vero non è solo la lievitazione del costo, è proprio il funzionamento, perché se chi deve leggere riceve troppi testi di cattiva qualità potrebbe anche giungere all'esasperazione, smettere di leggere e dunque operare in modi scorretti, producendo all'organizzazione un danno non misurabile economicamente in termini di costo tempo/uomo.
Scenari di questo tipo ve ne sono parecchi. Ma lasciamoli stare per il momento, e restiamo al caso in cui un lettore legge troppe cose di cattiva qualità, ma insomma le legge. Le legge, ma non le capisce del tutto o sospetta di non averle capite, dunque telefona per farsele spiegare, per farsi rassicurare. Quanto costa una telefonata? Un minuto di telefonata costa qualche centesimo in bolletta, ma costa due euro di tempo/uomo. Lascio al lettore di calcolare, sia pure per approssimazione, quanto sia grande la differenza tra il costo della bolletta e il costo reale della telefonata di chiarimento.
Tuttavia, telefonate di chiarimenti o no, l'incomprensione di un testo è un fattore negativo, soprattutto se è un evento sistematico, ricorrente: in questi casi, genera frustrazione, disorientamento, sfiducia. Il lettore tende cioè a mettere in discussione e poi anche a rompere quello che Grice chiama il patto di cooperazione: non si fida dell'autore, chiude il canale, non legge più (tutti noi mettiamo in atto questa strategia, per esempio nei confronti di uno scrittore del quale abbiamo letto una o due opere che non ci sono piaciute per niente. Io, per fare nomi e cognomi, detesto Francesco Petrarca e non sarei disposto a leggere un suo inedito, nel caso in cui qualcuno lo trovasse).
Le organizzazioni, soprattutto quelle nelle quali la comunicazione è una funzione importante, hanno capito, stanno comprendendo che i danni che la comunicazione può produrre sono enormi, che la società della comunicazione non è solo immagine, è sostanza, e che la sostanza va gestita bene, altrimenti fa male, molto male. A mio parere le organizzazioni stanno pagando caro:
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l'adozione di sistemi di gestione digitale dell'informazione (intranet, sito ecc.) progettati senza tener conto dei tipi di testo e dei contenuti (la ragion informatica non ben temperata dalla ragion comunicativa);
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un sistema editoriale interno poco razionale e non condiviso, nel quale ognuno può fare, inventare ecc. quello che vuole;
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una cultura aggressiva della comunicazione, cioè una cultura orientata a valorizzare il testo e non il (lavoro del) destinatario (del quale, appunto, si vuole "catturare l'attenzione"); o, al contrario, una cultura acritica della comunicazione, cioè una cultura che pregiudica buona la comunicazione come si è sempre fatta.
Nei casi nei quali la comunicazione costa troppo rispetto alla qualità del funzionamento della macchina, servono a poco interventi superficiali, occasionali, parziali, che puntano più a sviluppare le competenze di alcune persone che non a condividere il più ampiamente possibile un progetto di cambiamento che si fondi su un'idea precisa di che cosa si vuole cambiare per ottenere che cosa.
[pubblicato per la prima volta il 6 maggio 2009 nel blog Scrittura professionale, di Giovanni Acerboni. Il blog, edito da Edizioni Master, è rimasto attivo dal 17 gennaio 2008 all'11 ottobre 2009].